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Tuesday, 18 December 2018 18:58

SNEAKERS JESSE, HEROES FROM THE PAST #4: GIRARDENGO

 

Costante Girardengo e il bandito che voleva pedalare come lui

Vai Girardengo, vai grande campione
nessuno ti segue su quello stradone
Vai Girardengo, non si vede più Sante
è dietro a quella curva, è sempre più distante.
["Il bandito e il campione" - Francesco de Gregori, 1993]

Si sente dire spesso che per ogni campione sportivo che ce l’ha fatta ne esistono altri cento, mille, che per i più svariati motivi non sono riusciti a raggiungere gli stessi traguardi.
Stesso talento magari, ma meno forza di volontà, o meno tenuta mentale. Nessun fuoco sacro, dentro. Meno fame.
Ecco, se dovessimo dare ascolto alle leggende che dai primi anni del Novecento si tramandano nelle province piemontesi, potremmo dire che c’è stato un caso in cui un campione – tra i più grandi di sempre della nostra nazione – ha avuto un amico che avrebbe potuto dargli del grosso filo da torcere.

Ma che, a differenza delle altre decine di incompiuti, un po’ per scelta un po’ per destino ha scelto di diventare un “campione” in uno “sport” un po’ meno seguito e apprezzato, il crimine.

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Una storia, quella del fenomeno del ciclismo di Novi Ligure – Costante Girardengo – e del suo amicone bandito Sante Pollastri, che ha ispirato addirittura De Gregori e un suo intero album nel 1993, oltre che una fiction Rai (vabbè…) nel 2010.
Una storia che è diventata, grazie all’assenza dei media rapaci odierni e di tecniche di comunicazione ben più lente di un blog, un mito incastonato tra un’Italia unita ancora giovane e una narrazione epica da legare ai primi grandi eroi del nuovo secolo sportivo tricolore.

Ma le leggende, si sa, sono fatte per essere smentite, pur conservando un fondo di affascinante verità.
Quello che sappiamo è che Sante è nato sei anni dopo Costante: 1899 contro 1893.
Cresciuti grossomodo nello stesso quartiere di Novi Ligure, provincia di Alessandria, è assodato che entrambi fossero poveri come la maggior parte dei loro connazionali, forse pure più della media, già drammaticamente alta durante l’ingresso nel Secolo Breve.

Compagni di scorrazzate in bicicletta durante l’infanzia per dimenticare le proprie misere condizioni e pure la fame malefica, i due prendono presto strade differenti, nonostante il desiderio atroce di sconfiggere la povertà sia vivo in entrambi: Girardengo a 19 anni è già professionista, Pollastri lo segue con orgoglio e desiderio di emulazione ma nel 1918 ha già la vita segnata dal rancore verso polizia, società, Carabinieri. Dicono che un membro dell’Arma gli abbia ucciso un parente, o stuprato la sorellina: le versioni non coincidono, la leggenda è appunto una leggenda, ma il risultato è purtroppo certificato. Quel rancore si è già tramutato in una ribellione più oscura, la criminalità.

Costante Girardengo sfreccia intanto sulle strade d’Italia: domina due Giri, distrugge la concorrenza nella Milano-Sanremo, la sua preferita con ben sei vittorie, fa incetta di campionati italiani di ciclismo su strada, addirittura arriva secondo ai Mondiali in Germania nel 1927. Diventa il primo vero Campionissimo nella storia del nostro ciclismo, un talento naturale, puro, con quel piedino rapido e fluido fisso sui pedali, da mattina a sera, di vittoria in vittoria.
Una leggenda vera, ammirata e ispiratrice, che tanto avremmo voluto vedere con le nostre sneakers Jesse ai piedi, a volare come il vento sul cemento e in giro per il Bel Paese.

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Nulla a che vedere però con le “fughe” di cui è già diventato maestro Sante, il feroce Sante. Il generoso Sante.
Introvabile, inafferrabile, odiato dalle forze dell’ordine di Italia e Francia, amato dagli anarchici e dai poveracci come lui cui – si dice- regali parti delle refurtive, il bandito autore di rapine e omicidi che accrescono la sua nomea in tutta Italia proprio come l’amico Costante, è campione indiscusso di “volate” cui Girardengo non ha mai dovuto partecipare, fortunatamente.

I giornali lo chiamano “Nemico Pubblico Numero Uno”, nientemeno.

Perso di vista per ovvi motivi, Costante – che in cuor suo conserva il ricordo di un ragazzo figlio delle stesse misere condizioni – rincontrerà Sante a Parigi nel 1927, quando la Gloria sportiva è ormai alle spalle e i 40 anni alle porte. Pollastri, braccato dai gendarmi, tramite il massaggiatore di Girardengo amico comune ottiene un incontro con il ciclista durante la Sei Giorni parigina: felice nonostante tutto, Sante riabbraccerà colui che aveva lanciato “la fuga” da Novi Ligure e dagli stenti in tenera età, salutandolo e dandogli appuntamento nella terra natìa, ora che entrambi ce l’hanno fatta.

E Girardengo? Impaurito da un potenziale scandalo e fatte sue le confidenze del criminale, pensò giustamente di denunciarlo subito, testimoniando al suo processo dopo l’arresto avvenuto proprio nella Ville Lumiere. Sante si prese l’ergastolo, mentre Costante finì nel 1936 la propria incredibile carriera, diventando allenatore, testimonial, simbolo assoluto di un nuovo sport fatto di superuomini…e chissà, forse pure di banditi.

Due ragazzi del borgo cresciuti troppo in fretta
un’unica passione per la bicicletta
un incrocio di destini in una strana storia
di cui nei giorni nostri si è persa la memoria
["Il bandito e il campione" - Francesco de Gregori, 1993]

Wednesday, 02 August 2017 23:50

THE FABI ESSENCES DIARIES #34

“Credevamo di cambiare il mondo, invece è stato il mondo a cambiare noi.”

02 Agosto 2017, un Mercoledì dal sapore amarcord

Suite #34 – Hotel ME Milan Il Duca, piazza della Repubblica 13

Ore 18.50.
Sono seduta sul ciglio del letto.
In mano ho una busta da lettere senza nessun indirizzo. Nessun mittente.
Solo un “A Silvia” scritto a mano. Un bel corsivo, elegante.
La apro e il cuore mi balza in gola.
Un profumo inconfondibile ha fatto capolino dai bordi ora aperti.
Il legno umido, l’uva, il sole a seccare la terra.
Dalla busta cade un ciondolo, metà luna e metà stella.
Sopraffatta dai ricordi mi lascio cadere sul cuscino, volando.
Il liceo artistico. Le colonne di San Lorenzo. L’estate dell’89. La felicità.
“Radio RoofTop Bar. Ore 22. A dopo.” È l’unica cosa che c’è scritta dentro.

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Ore 19.
Continuo a vagare per la stanza. Volevo la #34 ma è già occupata.
Sono nervoso. Succede solo quando non riesco a controllare le emozioni.
La mia mano destra sta sventolando una busta che recita “A Simone”. La calligrafia mi è famigliare.
Ma non riesco a capire chi potrebbe averla scritta.

I primi secondi dopo averla aperta il mondo ha smesso di girare.
Dalla busta sono usciti aromi della mia – della nostra! – adolescenza.
Agrumi. Rosmarino. Del vecchio Gin. E una piccola chiave.
Chiunque sia, mi conosce da tanto tempo.
Da quando andavamo alla “Sacrestia”, locale di culto sui Navigli. Dai tempi delle scorribande sulla balera. Da quel 1989 storico per tutti.
Un foglio quasi completamente bianco m’invita ad andare al Radio RoofTop Bar alle 22.
Sono indeciso, non sempre è un bene resuscitare il Passato.

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Ore 19.10.
“A Federico”. Nient’altro. Ma così non vale!
Eddalla qualche informazione no?! E invece no.
Solo uno stupido appuntamento al Radio RoofTop Bar.
Perchè mi tremano le mani?
È solo un giochetto. Qualcuno che mi prende in giro. Non solo la frase che ripetevo come un mantra quando ero giovane. No. Anche il profumo di quell’estate. Il ginepro. Il muschio sui muretti.
Quel bacio in Via Brera. La chitarra di Simo. I canti e i balli e l’amore perduto.
“Quando si rischia la vita con qualcuno ci rimani sempre attaccato come se il pericolo non fosse passato mai.”
Devo uscire da questa stanza. Che ore sono??

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È stato Stefano a chiedermi di distribuire le buste.
Si è presentato oggi pomeriggio al Radio RoofTop Bar con una piccola boccetta di profumo artigianale.
Si è presentato solo con il nome e mi ha detto con cortesia di mettere un po’ di fragranza in ciascuna lettera.
Di richiuderle e consegnarle in tre suite precise.

Poi mi ha chiesto un piacere strano. Usare il profumo per creare un cocktail che lo ricordasse.
Sarebbe servito per l’incontro di questa sera.
“Un incontro dal sapore amarcord” mi ha detto.
Ho cercato di fare del mio meglio, ho aggiunto delle erbe aromatiche, del succo di limone. Del buon Porto. E ora sono quasi le dieci.

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Li vedo salire, uno dopo l’altro.
Eccoli incontrarsi, basiti ed increduli, sulla terrazza con vista su Porta Nuova. Le stelle alte in cielo.
Simone, un uomo sovrappeso, alto, dallo sguardo intelligente e la barba incolta, dopo pochi secondi di titubanza abbraccia forte Federico. Sportivo, in camicia e già sudatissimo.
Li osservo da lontano, Stefano sta per arrivare anche se loro ancora non lo sanno.

Silvia è un po’ imbarazzata, tenera ed esile nel suo impaccio. Ma l’incrocio di sguardi con Federico racconta tante cose che solo loro sanno.
E l’abbraccio che li unisce è lungo, sussurrato, dolce.
Quello con Simone è diverso, ma altrettanto emozionante. Stretto, vigoroso, la testa sulla spalla. Gli occhi chiusi e le labbra sorridenti.
Vincono i gesti, più che le parole. Ci si bacia, ci si abbraccia, ci si sfiora.
Poi è il turno di Stefano.

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“Ben ritrovati, amici miei!”
I tre si girano all’unisono, gli occhi sgranati dalla sorpresa e dalla gioia.
Stefano mi aveva preparato a tutto, parlandomi della loro grande amicizia. Delle diverse strade prese con l’università. Di un’estate indimenticabile. E del profumo dei loro ricordi.
Mi avvicino con quattro cocktails gemelli.
Bicchieri di vetro forti, particolari, pieni di ghiaccio e degli ingredienti che li avevano uniti.
Stefano osserva il suo drink, abbracciando Federico.
“Mi mancavate, sapete?”
Silvia ride e piange. Simone inizia a farle domande a raffica. Federico ascolta e sorride.

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Stefano li lascia sfogare, si lancia in aneddoti sepolti dalle sabbie del Tempo scatenando la girandola sfavillante, malinconica e soave delle loro memorie collettive. Dell’estate magica dell’89.
Poi alza in alto il bicchiere.
“Ma adesso a Noi, come si diceva ai bei tempi!”

A Voi, cari amici.
Sperando che il #34 vi aiuti a rispondere alla Domanda che da sempre mi tormenta: “Vincerà l’amicizia o l’amore? Sceglieremo di essere onesti o felici?”
Fatemi sapere…e intanto buonanotte e buona fortuna.
Marco Dognini, bartender.

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“Fabi Essence #34 – AMARCORD” narrated by Michele Pettene

Quotes from “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola

 

Friday, 28 July 2017 00:40

THE FABI ESSENCES DIARIES #43

“Uno straordinario concorso di circostanze mi portava a vivere più vite parallele, e a incontrare persone molto diverse tra loro.”

27 Luglio 2017, un Giovedì sorprendente

Suite #43 – Hotel ME Milan Il Duca, piazza della Repubblica 13

Mi bisbigliano “Suite Numero 43. Ospiti speciali”. Un brivido lungo tutta la schiena.
Solitamente non accade che io dubiti del mio lavoro. Sono piuttosto sicuro dei miei cocktails, anche di quelli che preparo ad hoc per i nostri clienti più sofisticati.
Ma la #43 fa storia a sé.
È come un appuntamento al buio.
Con la lieve differenza che una ragazza alla peggio non la rivedi più, mentre se qualcosa và storto nella #43…beh…sei semplicemente fottuto. Come dire, un minimo di pressione la si avverte.
Il problema principale?
La Numero 43 ha SEMPRE “ospiti speciali”.

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Scendo con la mia personalissima “valigetta degli attrezzi” dal mio laboratorio artistico, il celeberrimo Radio RoofTop Bar al decimo piano, e mi dirigo in fondo al primo piano del Me Milan Il Duca.
Il livello lo conosco a memoria: fuori dall’ascensore mi accoglie una sedia rossa – un modello d’arte contemporanea  del designer Aldo Rossi – silenziosa e solenne.
Sulla sinistra, un quadro ispirato a Parigi.
Poi si gira a destra, fino in fondo al corridoio.
Non so chi mi aspetti dietro l’ingresso della #43, ma il primo indizio riesco a raccoglierlo prima di bussare.

Dalla suite sembra fuoriuscire un vago profumo, un tenue contrasto di fiori, piante esotiche, frutta.
Anche del fumo, sigari cubani probabilmente.
Attendo qualche istante prima di bussare: le voci dall’interno, maschili e profonde, stanno discutendo animatamente.
Toc toc. “Sono Marco, il bartender…”

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L’istante in cui si apre la porta è quello in cui percepisco che quelli sono clienti più “speciali” degli altri.
Il fumo è talmente denso che fatico a riconoscere i lineamenti di chi mi ha aperto e mi ha stretto frettolosamente la mano.
Ma è un fumo dal buon sapore. Tra le narici mi si incuneano odori di pompelmo e geranio, onnipresenti.
Poso le mie cose su un angolo del tavolo e osservo con la coda dell’occhio la situazione.

Un uomo alto, dai capelli radi e bianchi, magro e nobile nel portamento, sta fumando come una ciminiera.
Vicino al tavolo da biliardo confabula stretto con quello che sembra essere una sorta di collega, o partner d’affari.
Intercetto solo alcune parole. “Tempo”. “Petrolio”. “Discrezione”. “Concorrenza”. “Borsa”.
Qualcosa di “grosso” sta succedendo, anche se non ne intuisco la vera entità.
L’aura della Numero 43, ancora una volta.
Non ci sono altre “gemelle” della stessa grandezza, lusso, fascino. Imprevedibilità.

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Parlare il meno possibile. Fare finta di essere sordi. L’unica informazione che mi è stata data è “Alta finanza”, oltre ad un certo qual grado di segretezza della cosa.
Mentre tento di astrarmi da quella conversazione di cui dovrei sapere il meno possibile l’altro personaggio, un po’ sovrappeso e con un gessato nero a strisce bianche, mi rivolge bruscamente la parola. “Due cocktail grazie. Uguali per entrambi. Entrambi vincenti.”

Incrocio lo sguardo dei due tra le nuvole di fumo. Capisco che non sono colleghi.
Stanno trattando. Ora ne avverto la tensione. Solo quel profumo continua a trasmettermi una calma surreale.
Mi concentro su quegli odori così inusuali per la #43, e inizio. Vodka. Spremuta fresca di pompelmo. Uno dei miei frutti orientali preferiti, lo yuzu. Poi mi lascio ispirare dall’atmosfera “calda”, e inserisco nella ricetta improvvisata anche del miele e del pepe nero.
Ora i due clienti si sono seduti sul divano, continuando a parlottare fitti, quasi irritati. Il contrasto con le fotografie delle modelle sopra le loro teste mi fa sorridere.
“Non si dovrebbe mai desiderare troppo” – sento dire al più vecchio – “Perché si rischia sempre di ottenere quel che si desidera.”

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Shakero il tutto, confezionando perbene i due bicchieri – alti e stretti – che rifinisco con degli spruzzi di soda e degli spicchi di arancia. Cerco di farli il più identici possibili, stessa gradazione di ingredienti, stesso colore. Stesso profumo.
A preparativi ultimati sollevo il vassoio e chiedo con rispetto se posso avvicinarmi.
Il più vecchio annuisce, facendomi segno con la mano.
Hanno interrotto il dialogo, sembrano stremati e attenti solo ai miei movimenti, come due vecchi felini ancora a caccia.
“Non lo disse ad alta voce perché sapeva che a dirle, le cose belle non succedono.”

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Sollevati da quella pausa afferrano in contemporanea i drink, ma non brindano, portandoli direttamente alle labbra.
Non si guardano.
Solo dopo due lunghi e silenziosi sorsi tornano a rivolgersi la parola.
I toni sembrano più distesi, i movimenti più amichevoli. Quasi rilassati.
Il sigaro dell’uomo in gessato si sta lentamente consumando nel posacenere.
Mi congedano, ringraziandomi.
Sembrano sorridere, è la prima volta da quando sono entrato che non li scorgo con le sopracciglia aggrottate.

Li ringrazio a mia volta, salutandoli.
Raccolgo le mie cose, provando invano a capire da dove arrivi quel profumo.
Esco dalla Numero 43, l’adrenalina che pompa nelle mie vene e il cuore dai battiti irregolari.
Mi lascio alle spalle la porta, ma non resisto al richiamo ancestrale della curiosità.
Prima di richiuderla del tutto, lancio un’ultima occhiata dalla fessura.
Stanno ancora sorridendo, la mano destra tesa l’uno verso l’altro.
Non saprò mai i loro nomi.
Ma forse loro ricorderanno il mio cocktail #43.
“Ogni giorno è un nuovo giorno.”

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“Fabi Essence #43 – MIND AND SPIRIT” narrated by Michele Pettene

Quotes from Ernest Hemingway

Friday, 21 July 2017 10:09

THE FABI ESSENCES DIARIES #65

“Noi prendiamo una manciata di sabbia dal panorama infinito delle percezioni, e la chiamiamo mondo.”

20 Luglio 2017, un Giovedì di meditazioni

Suite #65 – Hotel ME Milan Il Duca, piazza della Repubblica 13

Fino a qualche anno fa prendevo in giro chi mi parlava di “ritrovare se stessa”.
Cazzate.
Non avevo tempo da perdere dietro a certe filosofie.
Viaggiavo alla velocità della luce, sulla rampa di lancio di una carriera che avevo sempre sognato.
Rapida, come un felino notturno.
Passi tanto raffinati quanto spietati, decisi.
Ma ero incompleta. La mia imperfezione quotidiana mi irritava.
Mi mascheravo, a me stessa e al resto del mondo, alimentando la mia irrequietezza.
Volevo la luna, e la volevo subito.
Poi, un pomeriggio di Primavera, mentre camminavo tra le stradine milanesi, ho fatto un incontro.
Un aroma di Pesca e Peonia. Pungente, particolare, magnetico.
E ho deciso di seguirlo.

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Un cancello. A dieci minuti a piedi dal Naviglio Grande, sotto il parco Baden-Powell.
Dietro, qualcosa me lo diceva, stava l’origine di quel profumo.
Ho suonato, e il cancello si è aperto.
È così che sono entrata per la prima volta nel Monastero Zen “Il Cerchio”: il mio mondo non sarebbe stato più lo stesso.
Ero lì, ancora sbigottita nell’aver trovato un piccolo tempio buddhista in una via secondaria di Milano, che non mi sono accorta di quel piccolo pesco, l’origine di Tutto.
Da quel fortunato giorno, e in un breve spazio temporale, ho appreso più cose su me stessa di quante pensavo di averne capite in tutta la mia vita precedente.
“Voleva liberarsi della sua propria immagine, perché il fantasma era ciò che lei era, e Lei voleva essere libera dai vincoli della sua stessa identità.”

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“Continuiamo ad attraversare, inosservati, momenti della vita di altra gente.”
Questa, e tante altre frasi all’interno di meditazioni guidate, spalancarono le porte della percezione alla sottoscritta, una che amava definirsi con discreta arroganza “l’imprenditrice del proprio successo”.
Divenne presto una droga, la più positiva possibile.
Il Tempio Buddhista Lankarama, vicino a Viale dei Missaglia, e le conversazioni con monaci e persone di una serenità semplicemente superiore. Il Centro di Studi Tibetani “Mandala”, in Piazzale Siena, tra lezioni sull’autoconsapevolezza e feste tradizionali e corsi di yoga. Letture, proiezioni, canti. Cene condivise in ristoranti thailandesi, come quello di Porta Genova, “Bussakaram”. Viaggi in Giappone, India e Tibet.
Più approfondivo e più volevo ampliare la mia conoscenza.
E in tutti i luoghi dove andavo il solito, inconfondibile ed invisibile filo comune: il profumo di pesche e peonie.

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Ho cercato gradualmente di far entrare questa dolce esplosione di tranquillità interiore nel mio cuore.
Ci sono riuscita? Lo credevo, ma la frenetica routine giornaliera è una bella tigre da addomesticare, e spesso è riuscita ad avere il sopravvento.
Che è un po’ la ragione per cui mi sono rifugiata al ME Milan Il Duca, in questi giorni.
Per ritrovare una pace che avevo scorto, ma che poi come la sabbia mi è di nuovo sfuggita tra le dita.
Non so il perchè, ma le sensazioni di questo posto, di questa camera, sono sempre state diverse, amplificate.
Credo sia la miscela di colori e design, oltre che l’estrema intimità e rispetto degli spazi che si percepisce. O forse è lo stesso aroma di quel giorno: lo sento ad ogni angolo, terrazza, corridoio.
Non è solo un profumo, è un’idea in cui mi rifugio, in momenti come questo.

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Salgo al Radio RoofTop Bar dell’hotel, una delle mie attività preferite.
Qui è difficile non incontrare Madama Serenità, così sfuggente ultimamente. Basta sedersi su uno dei divanetti, lasciar scorrere lo sguardo su tutta Milano e spingersi con la mente ancora più in là, cullati da musica e lievi, tiepidi folate portate dal divìn Eolo.
Sospiro, e nel farlo ritorno a contatto con la “mia” fragranza. Sembra stranamente molto vicina.

Ne capisco il motivo pochi secondi dopo. Marco Dognini, il premuroso bartender, mi ha ascoltato paziente per tutto il tempo, sorridendo, porgendomi domande, annuendo.
E nel frattempo si è messo al lavoro, con la promessa di farmi un cocktail cucito su misura per le mie corde vitali che da tanto stanno vibrando, di nuovo inquiete.
Lo chiama “Numero 65”, come la mia suite. E me lo porge con garbo, appoggiando delicatamente sul flute un fiorellino viola.

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Lo porto alle labbra, bagnandomi bocca e lingua con un mix sorprendente di champagne e vodka infusa al the di gelsomino. Il profumo della pesca è intenso, quello di alcune spezie orientali pure.
“Com’è?” mi chiede Marco tra l’incuriosito e il divertito.
Mi prendo qualche secondo prima di rispondergli.
Quel sapore, quell’infusione delicata che sta conquistando il mio stomaco…possibile sia proprio quel richiamo che cercavo da tempo?
“Perfetto…” riesco a malapena rispondere.
Mi porto verso la balaustra, perdendomi nell’infinito delle luci notturne.
Ritrovare se stessa grazie ad un cocktail.
“Alcune cose ci sfuggono perché sono così impercettibili che le trascuriamo.”
Chi l’avrebbe mai detto?

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“Fabi Essence #65 – FAR AND WIDE” narrated by Michele Pettene

Quotes from “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”

Thursday, 13 July 2017 00:54

THE FABI ESSENCES DIARIES – #58

“Tu saresti capace di scegliere una cosa, una cosa sola e di essere fedele a quella? Riuscire a farla diventare la ragione della tua vita, una cosa che raccolga tutto, che diventi tutto proprio perché è la tua fedeltà a farla diventare infinita. Ne saresti capace?”

12 Luglio 2017, un Mercoledì diverso

Suite #58 – Hotel ME Milan Il Duca, piazza della Repubblica 13

Quattro.
Sempre noi quattro.
In giro. Seduti. Su treni, aerei, navi.
A Milano, o in qualsiasi altro posto. Siamo sempre in quattro.
C’è Vittorio, con quell’andamento perennemente stanco, affaticato. La schiena ricurva. Lo sguardo spietato.
C’è Giulia, da sempre unica donna del quartetto. Bellissima, nel suo procace pallido candore, le labbra rosse, i capelli corvini. Contesa da tutti noi da sempre. Povera, santa Giulia.
C’è Riccardo, riccioluto e brizzolato, un beffardo sorriso dipinto sul volto, accada quel che accada.
E poi ci sono Io. Marcello. In giacca e cravatta nere.
Scarpe lucide, come il cappello nero a tesa larga. La nostra armatura, Giulia esclusa.

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È sera, sul Naviglio Pavese. I tacchi vertiginosi hanno tenuto Giulia un po’ indietro.
Dice che il nostro profumo si sente forte, triplicato, anche a venti metri di distanza.
Come sempre del resto: è il nostro tratto distintivo, di cui più siamo orgogliosi. Una ricetta segreta, antica, di un maestro artigiano amico di Vittorio. Ci regalò la fragranza dell’amicizia eterna tanto tempo fa, agli inizi di tutto.
Rispondo a Giulia di recriminare in modo più originale. E di non mostrare la sua gelosia per il nostro aromatico, invisibile legame: non è cosa buona e giusta, per una donna della sua classe.
Uso Giulia come pretesto, mentre trascino la mia custodia con il mio amato basso a riposare.
C’è un po’ di tensione tra noi, il concerto non è andato come volevamo.

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Ospiti al “Nibada”, clamorosa location per la live music milanese poco distante dalla Darsena, non siamo mai riusciti a trovare il groove giusto.
Giulia non ha cantato come suo solito, ovvero un’Aretha Franklin nata alla Mangiagalli.
E Riccardo, ultimo in ordine di tempo ad essersi preso una cotta, è stato male per Lei.
Non un affarone, se è leader e “guida” del tuo ritmo con la sua batteria.
Le parole sono volate senza filtri nel dietro le quinte. Cose che non si dovrebbero mai dire ad un fratello.
“Miei cari, la felicità consiste nel poter dire la verità senza far mai soffrire nessuno” avevo detto in tempi più sereni.
Ho ordinato del whisky per placare gli animi: il profumo che ne è uscito ci ha ricordato lontanamente il nostro legame. Ma la formula magica, sprigionata nell’etere dai nostri movimenti bruschi, mi è sembrata ancora lontana.

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Perlomeno, quella ventata inebriante dal vago sapore di mirra e Fernet mi ha portato alla mente i giorni di Gloria, su quelle stesse strade. Il duetto da pelle d’oca di Giulia e i suoi ululati con la chitarra di Vitto alla “Birreria Bonaventura”. La prolungata standing ovation a “La Salumeria della Musica”, giusto poco più in giù, verso Viale Ortles, quando un Ricky non ancora innamorato aveva picchiato i suoi tamburi in assoli da far esplodere il cuore. “Se invece di buttarle via si leggessero qualche volta le carte dei cioccolatini, si eviterebbero molte illusioni.” ci aveva detto uscendo…ironico, a ripensarlo ora.
In Piazza XXIV Maggio – con la mente che corre ai bei vecchi tempi de “La Buca” in Via San Vincenzo – chiamo un taxi. Conosco un posto che può riallineare le nostre essenze: dico ME Milan Il Duca, grazie”. E sorrido, fiducioso.

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In quindici minuti che sembrano durare un secolo arriviamo in uno dei posti più taumaturgici che conosca, in questa città che di notte sembra essere preda della tromba di Miles Davis.
Entriamo dall’ingresso principale, i miei compagni sono perplessi. E non si parlano.
Ma l’eleganza del design del “ME” sembra iniziare a sedurli: saliamo le scale a ricciolo, apriamo la porta a vetro e “STK MILAN” – una delle steakhouse più affascinanti di Milano – si apre davanti a noi.
Ci portano in un tavolo separato dagli altri. Intimo, le luci soffuse. Meglio, gli sguardi irritati si scorgono solo nei bagliori delle candele.
Al resto ci pensano la carne deliziosa e le strepitose bottiglie di rosso.

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Giulia, l’unica apparentemente non irritata, ci osserva con amore. Sa delle nostre cotte per Lei. Impossibile tenere il broncio in un’atmosfera simile, e le prime battute tra Vittorio e Riccardo stemperano gli animi, riavvicinandoci.
La cena è straordinaria, una festa per i muscoli e per il cuore, mentre la chitarra acustica di sottofondo sembra cucita su misura per rilassare i nostri nervi.
La fragranza della nostra amicizia torna a farsi viva, pure Giulia se n’è accorta!
Manca solo un elemento. Chimico, intangibile, fatato.

E poi…voilà! Da dietro il bancone il bartender si muove con un vassoio.
Sopra quattro cocktail, tutti uguali. Divertenti, pittoreschi, originali. Ci sono persino dei dollari sorretti sui bordi, a corredo.
Il loro creatore si presenta: “Marco Dognini, il piacere è tutto mio.”
“Vi ho visti un po’ silenziosi, da laggiù. Quando sono qui – con questo sapore attorno – e mi voglio tirar su, mi preparo un #58. Un cocktail speciale. Mi sono permesso di dedicarvelo, sperando possa avere su di Voi lo stesso effetto.”

C

Ci guardiamo stupiti ma contenti. La sorpresa è decisamente gradita, e Vittorio vuole addirittura brindare. Il miracolo è completo, ed ora la miscela che avvertiamo nelle papille gustative e su su su fino alle narici e al cervello è completa.
Il Numero 58, quindi. E il cerchio sembra chiuso.
Ringraziamo di cuore Marco dopo la bevuta, chiedendogli i segreti di tale incantesimo.
Lui ci guarda, ma non dice nulla. Solo un “5″ e un “8″ con le mani, prima di svanire nella penombra.
Le emozioni sono forti, vogliamo rimanere in un posto che è già riuscito a darci così tanto.

Prenotiamo la suite #58, naturalmente.
Abbracciati, con Giulia ad intonare un vecchio canto popolare francese, andiamo nella nostra camera.
Perfetta, con un misto di grigi e beige, pare quasi invitare a coricarci nel matrimoniale.
Li abbraccio forte, tutti insieme, i livori svaniti nel nulla.
È rimasta solo quella scia nell’aria, e un lampo di felicità mi fa tremare e mi ridà forza.
Alcuni la chiamano Vita.
Noi, semplicemente, Amicizia.

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“Fabi Essence #58 – WAYS AND MEANS”
 narrated by Michele Pettene

Quotes from “8 1/2″ di Federico Fellini

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